LE PRIME PAGINE
1
La targa era ancora quella in marmo, grossa, pesante, imponente: “MINISTERO DELLE COSE DA FARE” – “Ufficio Distrettuale”. Michele entrò, come al solito tra le sette e cinquanta e le otto e, prima del caffè alla solita macchinetta che, in quanto ad anzianità, era seconda solo ad un paio di colleghi, andò a firmare il foglio-presenze quotidiano. Gli si fece incontro Maria, una ragazza di un paio di anni più giovane, in età e in servizio.
-Dai Michele, non prendertela per Luca. Troverà un altro lavoro. E poi in fondo se l’è voluta lui.
Come al solito non hai capito niente, pensò, accennando un sorriso, silenzioso, Michele. Mandò giù il caffè e si avviò verso la sua scrivania. Le pratiche erano sempre le stesse ormai da quattro giorni. Tre cartelle verde scuro, grosse e pesanti, e tre cartelline in cartoncino giallo. Sedendosi, la sedia cigolò. Non certo per il suo peso; soltanto settanta chili per un metro e ottanta.
Tutte le sedie, di tutti i Ministeri, cigolano. Anche se stai seduto immobile. E questo è un mistero. Per tutti. Appoggiandosi alla spalliera della sedia, Michele dette un’occhiata alla stanza. Erano in venti, quel giorno. C’era già chi aveva iniziato il lavoro; alcuni. Altri, seduti ai loro posti, parlavano del sorteggio di coppa; tanti si attardavano alla macchinetta del caffè. Capì subito che anche quella non era giornata. Si alzò, si tolse il maglioncino di lana verde, lo infilò nel terzo cassetto della cassettiera del suo tavolo, lo richiuse e si avviò verso il bagno. Era grande, spazioso, rifatto in epoca recente. C’erano tre lavandini col sapone a spruzzo, quasi sempre esaurito; gli orinatoi e due stanze con la tazza e il bidet. Michele entrò nella seconda stanzetta (nel secondo gabinetto si dovrebbe dire); lì c’erano tre sedie e un posacenere; l’aria condizionata rinfrescava tutto l’ambiente, lasciando un aroma di fresco pulito. Sembrava una camera d’albergo. Michele si stirò mettendo il culo su una sedia, la schiena su un’altra, e la testa sulla terza. I piedi li posò sulla tazza del gabinetto chiusa col suo coperchio. Allungò il braccio e spense la luce.
2
Luca era nato nella capitale ma la famiglia era originaria della Sicilia. Il nonno, Antonio, era conosciuto in mezza Sicilia per il “matrimonio della vendetta”. Il giorno delle sue nozze con la figlia del barone Currau, la sposa, i genitori di lei, di lui e gli amici del barone, erano rimasti, per ore, in attesa dello sposo. Solo parecchio tempo dopo, e cioè quando i suoi genitori tornarono esausti e sconfitti nella ricerca del figlio, tutti si persuasero che il matrimonio non si sarebbe più celebrato. Il dolore della sposa e la rabbia dei suoi genitori si erano consumati a poco a poco, così come a poco a poco era nata la leggenda del ragazzo che aveva preso in giro il barone Corrau, la sua famiglia e i loro amici. Era, diceva la gente, una piccola vendetta nei confronti di chi fino a quel giorno li aveva sfruttati e avrebbe continuato a farlo per il resto della loro vita. In realtà Antonio non aveva voluto vendicare nessuno. Semplicemente aveva saputo che un’altra donna, Franca, aspettava un bambino da lui. Così aveva piantato in asso la donna che avrebbe rappresentato la certezza di una vita agiata e tranquilla, per se stesso e i suoi figli, per seguire il suo istinto e il suo cuore. Franca abitava insieme ai genitori in un paese vicino. Si erano conosciuti nei giorni successivi alla fine della grande guerra. Si erano frequentati, di nascosto, per i mesi seguenti. L’amore era sbocciato naturale come l’acqua di fiume che scende a valle e che prima o poi si butta a mare. Intanto però un’altra donna si era invaghita e innamorata di quel ragazzo alto e grande con i capelli chiari e gli occhi azzurri. Maria era la figlia più giovane del barone Currau. Da quando lo aveva visto alla festa del patrono non aveva avuto più dubbi: quel giovane doveva essere suo marito. A nulla erano valse le prediche e le minacce dei suoi genitori. Maria era stata irremovibile. Se non avesse avuto Antonio sarebbe rimasta zitella. Il barone si era dovuto piegare e aveva organizzato una festa per annunciare il fidanzamento della sua piccina con il figlio del barbiere. Antonio non amava Maria; però aveva accettato il matrimonio perché in quel modo sarebbe riuscito a cambiare l’esistenza ai suoi genitori e ai suoi quattro fratelli, più che a se stesso. E poi Maria non era una cattiva ragazza. Quando però si era reso conto di amare Franca, aveva avuto un periodo di confusione, schiacciato tra l’amore per una donna e quello per la famiglia. Ma una notizia aveva fatto pendere la bilancia da una parte invece che dall’altra: una nuova vita stava per nascere; un po’ di lui sarebbe vissuto in un altro corpo. E quella che, in altri tempi sarebbe stata una semplice scelta, pur dolorosa e che avrebbe certamente dato dispiaceri, diventava, in quel frangente, un momento di scandalo, per alcuni; di soddisfazione e sottile piacere per altri. Tanti altri. Il giorno del matrimonio si era alzato presto. Aveva fatto colazione, si era lavato, si era vestito con l’abito comprato dai soldi del futuro suocero e, con la scusa che non riusciva più a stare in casa ad aspettare l’ora di andare, era uscito. Ci vediamo in chiesa, aveva detto alla madre. La sera prima Franca gli aveva detto, in lacrime, che era incinta, che lui era il padre ma che lo avrebbe lasciato libero di fare quello che avesse ritenuto più giusto. Antonio le aveva risposto che a quel punto non aveva più alcun dubbio, che le loro vite si erano legate l’una all’altra e che l’indomani sarebbero andati via dalla Sicilia per vivere insieme il resto dei loro giorni. Franca lo aspettava all’uscita del paese, in contrada Marzapane. Antonio era arrivato all’appuntamento accompagnato da un comune amico che li avrebbe portati col suo carretto a Siracusa da dove avrebbero preso un treno per Roma sperando di trovare ospitalità presso lo zio Turi. Il viaggio in treno era sembrato breve a tutti e due. Alla stazione, a Roma, appena scesi dal treno, avevano chiesto ad un ferroviere se conosceva la trattoria “L’Etnea”. Questi si propose come loro accompagnatore dato che lui andava là ogni mezzogiorno a pranzare. Lo zio Turi, uno dei fratelli della mamma di Franca, era a Roma da una vita. Vi era arrivato da ragazzino seguendo alcuni compari che andavano nella capitale in cerca di lavoro. Aveva iniziato lavando i piatti in una trattoria e nel giro di pochi anni ne era diventato prima comproprietario e poi unico titolare. Si era sposato e non era più ritornato in Sicilia. La visione di quella ragazza, che così tanto somigliava a sua sorella, in compagnia di un ragazzone sconosciuto lo aveva turbato. Si era anche preoccupato quando aveva saputo chi erano quei due giovani; ma poi li aveva abbracciati e aveva detto loro che potevano stare tutto il tempo che volevano. Mario sarebbe nato qualche mese dopo.
3
Calcio, bocce, biliardo, tennis, formula uno. Erano questi gli “sport” da tavolo che impegnavano quotidianamente Michele e Luca. Le loro mattinate lavorative avevano i tempi ormai stabiliti. Dalle otto e trenta alle dieci: lavoro. Poi c’era una buona ora di lettura, quindi la merenda. Tra le undici e trenta e mezzogiorno iniziavano i tornei. Chiusi nell’archivio, con un paio di dozzine di monete da cinquanta lire, colorate di giallo e di rosso o, all’occasione, di altri colori, iniziava per loro, finalmente, il momento che rendeva piacevole la loro giornata lavorativa: l'interminabile duello a colpi di indice sulle monete. Era un momento che aspettavano con ansia per tutta la mattina, anche se sapevano di rischiare grosso. Sarebbe stato difficile spiegare la loro presenza in quel posto, ricurvi sul tavolo, intenti a colpire una moneta da dieci lire con una da cinquanta, o ad esultare per un gol fatto o per un lungolinea sbagliato dall’altro. Ma a loro andava bene così. Il lavoro era un mezzo, non il fine della loro vita. E poi quello era un passatempo come tanti altri. C’era chi lavorava a maglia, chi studiava, chi leggeva il giornale, chi si infiammava in discussioni sportive e chi... giocava con le monetine. Un richiamo, una nota e, in ultima analisi, il licenziamento era per loro una possibilità già prevista ed accettata. In realtà non pensavano mai a quest’ultima ipotesi, nel senso che non credevano di poter essere licenziati per un peccato così veniale. Dovrebbero licenziarci tutti, si dicevano spesso. Erano comunque convinti che qualunque sorte sarebbe stata comune a tutti e due. Richiamato l’uno, richiamato l’altro. Licenziato l’uno, licenziato l’altro. E questo li rassicurava. La possibilità che potesse essere solo uno dei due a subire una punizione non era per niente considerata. Quel sabato la giornata si svolse secondo copione. Alle tredici e trenta tutti gli impiegati erano già pronti a lasciare l'ufficio, come tutti i giorni ma specialmente come ogni sabato. L’avvistamento del direttore, all’ingresso dello stanzone, non comportò nessuna modifica alla situazione. Per tutti era ormai un diritto stare con le mani in mano aspettando le quattordici. Tutti, nella vita, abbiamo un ruolo. Molte volte si può fare a meno di giocarlo; altre volte non è possibile. Quella era una situazione in cui il direttore doveva fare il direttore. Anche gli impiegati, in quella situazione, normalmente, avrebbero fatto gli impiegati e si sarebbero rimessi a far finta di lavorare. Qualcuno, anche questo è un ruolo, avrebbe cominciato a scherzare col direttore sul fatto che ormai era quasi l’ora di andare. Ma, forse perché Luca poco prima aveva perso la partita decisiva a tennis, o forse perché quella era una delle situazioni ipocrite che meno sopportava, le cose quel giorno andarono diversamente. Luca restò al suo tavolo, immobile. Il direttore lo invitò a riprendere il lavoro.
-Ma è inutile ormai. Stiamo per uscire.
-Da qui si esce alle quattordici e fino a quell’ora si lavora!
-Nessuno, in tutti gli uffici, lo fa. Nemmeno lei. E questa è ipocrisia bella e buona.
Da lì si passò alle minacce e ai sorrisi beffardi.
-Ma non mi faccia ridere, per piacere. Alle due meno un quarto del sabato...
Un mese dopo Luca veniva convocato dalla segreteria generale del personale che gli notificava una lettera di censura da parte del Sovrintendente per grave comportamento e per ingiurie alla persona del direttore.
(continua)
PAROLE
intervista di Daniele Colombo all’autore
Ho voluto che questa intervista fosse un po’ particolare e quindi ho pensato ad un caro amico. Lui mi conosce (almeno un po’), con lui ho percorso alcuni tratti della mia strada e a lui ho affidato questo compito. Abbiamo realizzato questa intervista in modo bizzarro poiché la vita stessa è spesso bizzarra.
Le parole sono chiuse: Che cosa significa?
Ho finito le mie parole tanto tempo fa. Era un caldo pomeriggio d'estate e stavo riposando. Non ricordo quanti anni avessi, forse tre, dieci o venti. Ma ciò ha poca importanza. Quello che ricordo con sicurezza è che ad un certo punto sentii intorno a me un grande silenzio. Eppure c’erano tanti volti, alcuni familiari altri no, che avevano la bocca aperta e muovevano le labbra. Sopra tutti spiccavano i volti di un uomo e di una donna: erano adulti e credo che stessero gridando. Le loro urla mi rimbalzavano dentro la mente, le loro frasi e le loro parole erano senza senso. Per non sentirle staccai la spina del mio cervello. Fu la prima volta che lo feci; in seguito lo ripetei tante altre volte, ogni qualvolta sentivo tanti “bla,bla,bla”.
Quella volta capii che le parole spesso erano, e lo sono purtroppo sempre di più, vuote, chiuse, senza senso. Per me era cioè finito il tempo delle parole. In altri termini credo più importanti i fatti che le parole.
Ma allora, scusami, perché hai usato tutte queste parole (nemmeno tante, in verità)?
Proprio perché credo nell’importanza dell’agire piuttosto che del parlare. Mi sono servito delle parole scritte per “agire” e dare spazio alla mia voglia di realizzare i miei sogni, di espandere i confini del mio sé al di là dei limiti e delle costrizioni della vita quotidiana e della società attuale.
Questa è una domanda che vorrei fare a tutti gli scrittori: alle porte del duemila, nell’era dei computers e della multimedialità, non ti sembra di avere usato un mezzo ormai vecchio come veicolo per le tue idee?
Qualcuno ha detto e scritto che fondare biblioteche è come costruire granai pubblici in cui ammassare delle riserve per lo spirito: i libri sono allora come delle spighe di grano che servono per nutrire la nostra mente, per allargarne i suoi orizzonti, i suoi confini. In fondo credo fortemente che la prima rivoluzione possibile sia quella culturale. Solo attraverso l’ampliamento dei nostri orizzonti culturali possiamo iniziare a superare i nostri limiti e quelli impostici dalla società. I libri possono anche essere scritti al computer. Ma non è la stessa cosa. Il sapore e l’odore dell’inchiostro che prende forma sul foglio di carta ancora vergine è qualcosa di speciale che nessun computer al mondo sarà in grado di riprodurre o sostituire!
Nanni Moretti va matto per la torta Sacher; non è che per caso tu impazzisci per la panna? Sai, il tuo modo di scrivere…
Più che per la panna io impazzisco per la ricotta. Non so quale sia il nesso che hai trovato fra la panna e il mio modo di scrivere, tuttavia posso dirti che la stessa passione, lo stesso desiderio che mi infervorano quando mangio un cannolo di ricotta (il mio dolce preferito), mi hanno pervaso ed accompagnato durante tutta la stesura di questo romanzo. Chissà, forse se riuscissimo a recuperare la nostra passione verso la vita e le cose che facciamo, la nostra quotidianità potrebbe dipingersi di tanti colori.
Va bene, lasciamo perdere questa discussione che non ci porta avanti più di tanto e che sa un po’ di retorica (comunque ci sarà modo di riparlarne in altre occasioni). Parliamo invece di sensazioni. Che cosa si prova a iniziare e finire un libro?
Beh, sai, scrivere un libro è un po' come fare un figlio. Lo senti dentro, senti che il respiro scorre in modo diverso, il sangue diventa più fluido e cominciano a nascere le idee, i pensieri acquistano forma, vedi i personaggi, conosci la trama. Ogni cosa scorre; nasce dentro ed assume forma nelle parole scritte, nell’inchiostro che esce dalla penna e diventa senso sul foglio bianco. E quando il libro finisce ti accorgi che sei solo all’inizio, in fondo tuo figlio ha appena iniziato a vivere. All’improvviso hai la consapevolezza che scriverai ancora, che una volta avvenuto il parto dovrai far crescere ed allevare fino alla maturità la tua forza generativa, la tua capacità creativa: allora il desiderio di scrivere si fonde con il bisogno di esprimere ogni pulsazione che ti nasce da dentro nell'incontro con il mondo esterno.
E adesso facci scoprire chi è Meno Occhipinti.
Non è facile rispondere a questa domanda. Non so se tocca a me dire chi è Meno Occhipinti, temo di non essere obiettivo. Alcune cose credo di averle già dette rispondendo alle altre domande.
Da quando ho imparato a non ascoltare il vuoto delle parole inutili, da quando cioè ho capito che “Le parole sono chiuse”, ho sempre cercato modi diversi di comunicare e modalità espressive altre: dalla musica alla creazione di un giornale satirico, dall’inventare storie e radionovelas per una radio locale all’idea di realizzare un film. Quel film, che tu conosci bene, iniziato alcuni anni fa e mai finito, rimane il sogno nel fondo del cassetto. Per ritornare alla tua domanda, mi piace pensare a Meno Occhipinti come un uomo alla ricerca di una vita diversa, di un’isola da costruire nel deserto del vuoto delle parole inutili, di un senso, di un filo conduttore in una vita sempre in costruzione, in trasformazione...
Scusami se ti interrompo, ma a questo punto la domanda nasce spontanea: il tuo, è forse un libro autobiografico?
Sai, credo che ogni libro in fondo sia autobiografico nella misura in cui nasce dalle sensazioni, dalle emozioni, dai pensieri del suo autore. Anche un saggio in fondo rappresenta l’autobiografia del pensiero del suo autore!
Se il mio libro sia autobiografico o quanto esso lo possa essere credo che non spetti a me dirlo. Ogni lettore potrà forse trovarvi un pezzo della propria biografia e anch’io da lettore di questo libro potrò forse trovarvi un po' della mia storia. Chissà…!
Bene, credo che sia tutto.
Sì? Allora offrimi un cannolo alla ricotta!
RECENSIONI
In questo romanzo breve o racconto lungo, secondo come lo si vuole considerare, si intersecano le storie di tre uomini, che poi rappresentano tre generazioni della stessa famiglia, della storia del nonno Antonio, a quella del figlio Mario e, infine, quella del nipote Luca. Come è scritto sul retro della copertina “Una storia che porta altrove. L’accettazione del presente, l’omologarsi oppure la ricerca di una vita diversa. L’incertezza delle scelte e la consapevolezza che non c’è più spazio per le parole. Le parole sono chiuse”.
Meno Occhipinti è nato a Ragusa 35 anni fa, si è occupato di satira, ha girato dei documentari, ha collaborato a una radio locale con programmi di satira.
Antonio fugge con la ragazza che aspetta un figlio da lui e non sposa la figlia del barone. Va a Roma e lavora in una trattoria, finché non ne diventa proprietario. Il figlio Luca si laurea in ingegneria, ma s’impiega al Ministero, in un lavoro che non gli piace, che pianta dopo poco tempo, rompe il sodalizio con l'amico Michele, quasi un fratello e va a lavorare come ingegnere in Nicaragua, per lo sviluppo del paese. Il romanzo è scritto ottimamente, con grande disinvoltura. La storia è seria, anche se, talvolta, la tendenza alla satira fa capolino e non manca qualche situazione paradossale.
Nell’appendice c’è un intervista di Daniele Colombo, dove Occhipinti spiega il significato del titolo. “Ho finito le mie parole tanto tempo fa”, dichiara all’intervistatore. “Quello che ricordo con sicurezza è che ad un certo punto sentii intorno a me un gran silenzio… Quella volta capii che le parole spesso erano e lo sono purtroppo sempre di più, vuote, chiuse, senza senso”.
(dal catalogo di Libroitaliano)
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Tre opere di narrativa, tutte edite dall’Editrice Libroitaliano, di tre ragusani, abbastanza giovani, sono apparse quasi contemporaneamente, a testimonianza che c’è una provincia creativa e intellettuale, che scrive, con risultati apprezzabili. Si tratta di […] e di
Le parole sono chiuse di Meno Occhipinti (nato a Ragusa 35 anni fa, documentarista e fondatore del Gruppo “Fantasia Creativa”). […] Le parole sono chiuse è un romanzo o un racconto lungo, dove si intersecano le storie di tre uomini, che, poi rappresentano tre generazioni della stessa famiglia: il nonno Antonio, il figlio Mario e il nipote Luca. Antonio si reca a Roma, in occasione della fuga con la propria ragazza e lavora in una trattoria, di cui, in seguito, diventa proprietario. Il figlio Mario, che lo aiuta, diventa partigiano e, a Firenze, conosce una compagna di lotta, che porta a vivere con sé, a Roma, presso la trattoria. Luca si laurea in ingegnera, si impiega al Ministero, ma poi lascia il lavoro e si reca nel Nicaragua, per contribuire allo sviluppo del paese. Il romanzo è scritto ottimamente, con grande disinvoltura; la tendenza alla satira fa capolino, ogni tanto, mentre non manca qualche situazione paradossale. Nell’appendice lo stesso autore spiega il significato del titolo: “… ad un certo punto sentii intorno a me un grande silenzio… Quella volta capii che le parole spesso erano e lo sono purtroppo sempre di più, vuote, chiuse, senza senso.”
Emanuele Schembari (dalla rivista Dialogo)