Con gli amici, quelli “veri”, quelli con i quali ci si vedeva tutti i giorni e si condividevano gioie e dolori (più i secondi che le prime), abbiamo vissuto gli ultimi anni della nostra adolescenza alla ricerca spasmodica (forse esagero ma quello era un dei nostri pensieri fissi) di una donna per fidanzata (a differenza di Lucio Battisti che, negli stessi anni, voleva invece una “donna per amico”).
Purtroppo la ricerca non è che andasse tanto bene. Diciamo che, per noi, la fidanzata era più che altro un sogno, un miraggio: le donne che ci piacevano non ci consideravano neanche per un’innocente passeggiata al Corso, mentre quelle che forse (un “forse” abbastanza grande) ci potevano stare, a noi non piacevano. Così il bianco era il colore dominante di quel periodo.
La mia generazione è cresciuta a scacce e musica. Le scacce per nutrire il fisico, la musica l’anima. E così, ogni qualvolta la delusione per un “no” o un “ci devo pensare”, che poi sistematicamente si traduceva in un altro “no, si faceva così insopportabile da avvicinarci alla depressione o al pianto, eravamo costretti a ricorrere a qualcosa che ci riportasse alla vita, che ci facesse tornare a sperare in un “futuro migliore”.
Quelli erano i momenti in cui decidevamo di ricorrere all’omeopatia. No, non prendevamo compresse né gocce. La nostra era una cura omeopatica tutta particolare.
Come tutti sanno, il principio dell’omeopatia si basa sulla legge della similitudine: secondo il suo “inventore”, il medico tedesco Christian Friedrerich Samuel Hahnemann, ogni malattia può essere curata, e quindi portare alla guarigione del malato, utilizzando a dosi minime la stessa sostanza che l’ha provocata. Dunque l’obiettivo della cura non è eliminare il sintomo della malattia ma sconfiggerla utilizzando la stessa sostanza che l’ha scatenata.
Ed è proprio quello che facevamo noi. Nei momenti di crisi nera si andava a casa di uno di noi, si accendeva lo stereo e si metteva sul piatto giradischi (i CD, gli MP3 e lo streaming non erano ancora nemmeno nei nostri sogni) il lato B di Aspettando Godot di Claudio Lolli (il lato A era un po’ troppo allegro per essere curativo), quello in cui erano presenti canzoni come Angoscia metropolitana, Quello che mi resta e Quando la morte avrà. Ci sedevamo per terra, spesso abbassando le avvolgibili, e ci sparavamo in sequenza le cinque canzoni di quella facciata per due, tre o anche quattro volte di seguito. Canzoni tristi, per curare la nostra tristezza. La cura omeopatica, perlappunto.
Il più delle volte funzionava. Ogni tanto si doveva invece prendere qualche “dose” in più di omeopatia lolliana per tornare allegri. Ma c’erano momenti in cui Lolli era insufficiente a guarirci. In quel caso dovevamo ricorrere a qualcosa di più forte: il Greatest hits di Janis Joplin. Non ho mai capito perché quel disco (che ascolto ancora adesso ma ormai esclusivamente per le belle canzoni che contiene) ci facesse quell’effetto, ma era sufficiente un solo ascolto per “guarirci”.
Poi siamo cresciuti, abbiamo trovato lavoro, ci siamo sposati, abbiamo fatto figli e non ci siamo più ammalati di depressione. Ma che nostalgia per quegli anni…