Il proverbio è una massima, spesso in rima, che esprime un pensiero, un precetto, dettato dall’esperienza. Caliti juncu, il libro di Salvatore Barone in uscita sabato prossimo, è una raccolta di proverbi, ma non solo. Caliti juncu è anche una riflessione su un mondo, su una civiltà che è sparita, che sta sparendo, ma che invece dovremmo recuperare per “leggerne i segreti del rapporto fra pulsioni, bisogni, regole, ragione e civiltà che abbiamo smarrito. Sperando forse di trovare spunti e ispirazione per una nuova etica di cui abbiamo un grande bisogno”.
Salvatore Barone, Quando e com’è nata l’idea di scrivere “Càliti juncu”?
Verso la fine degli anni novanta. Dovevo preparare una “Area di progetto” con le mie allieve del quinto anno del Liceo socio-psico-pedagogico di Scordia, adesso Liceo delle scienze umane. L’Area di progetto è un lavoro multidisciplinare che le studentesse preparano nel corso del quinto anno e poi discutono in sede di esame di maturità. Quell’anno pensai di proporre uno studio della civiltà contadina, tanto intrinsecamente vicina alla nostra realtà socio-economica e culturale. Nel nostro liceo avevamo come collaboratore il signor Rullanti che ogni tanto ci stuzzicava recitandoci proverbi in lingua siciliana. Allora, perché non farne una raccolta? Il mio intento non era solo quello di trascrivere i proverbi in lingua siciliana, ma anche di commentarli. Le allieve furono diligenti nel raccogliere tanti proverbi dalla viva voce del signor Rullanti, ma quando si trattò di commentarli ci rinunciarono. Così, per la parte di Area di progetto che mi riguardava, la Sociologia e l’Antropologia culturale, si trattò di fare un’introduzione e una post fazione alla semplice raccolta di proverbi e poi discuterli in sede di esame orale. L’introduzione e la post fazione sono rimasti quasi identici al lavoro che scrissi a quel tempo. Ma avevo materiale sufficiente per iniziare un lavoro di commento non solo di quei proverbi, ma anche di quelli che mia madre di tanto in tanto mi ha recitato, e ancora fortunatamente mi recita. Non ho scritto sui proverbi in maniera regolare. Ho ripreso più volte a commentarli nell’arco di più di venti anni.
Che cos’è il proverbio?
Penso che dal libro si possa ricavare una risposta a questa domanda. Il proverbio è una norma sociale non scritta, una sorta di invito-avvertimento, che passa di bocca in bocca da ideali inventori di questi detti ad altrettanti ideali ascoltatori che possono ricevere indicazioni per regolarsi nella loro vita. È un modo tenero di trasmettere un’esperienza che può servire alle nuove generazioni per cercare di tenere i comportamenti giusti nelle relazioni sociali.
Quant’è importante mantenere memoria del nostro passato?
La storia, si diceva, è maestra di vita. Ma non mi riferisco solo alla storia dei grandi eroi e delle grandi gesta che appartengono al passato dell’umanità. (Per inciso, sembra che il nuovo governo del paese voglia eliminare dalla prima prova scritta dell’esame di maturità il tema di Storia. Che sciagura!). Penso anche alla storia sociale delle comunità che ci hanno preceduti nel corso dei secoli. A questa storia appartiene anche la trasmissione orale di racconti o “cunta”, filastrocche, proverbi, eccetera. Pur non avendo trovato sempre una loro trascrizione, si sono ugualmente tramandati attraverso i secoli e sono arrivati fino a noi, forse modificati, ma sempre vivi.
Non crede che il proverbio sia una tipologia di sapere ormai superata?
Non credo. Da quello che ho detto in precedenza, penso che il proverbio possa ancora servire per migliorare le relazioni sociali. E poi, sento ancora anziani del popolo, ma anche persone giovani, che nel loro parlare intercalano le discussioni con la recita di proverbi. Certo, questi detti non sono nel linguaggio delle nuove generazioni, ma credo che anche in queste la frequentazione e l’ascolto di persone più adulte possono trasmettere un sapere sedimentato nella cultura del popolo a cui appartengono.
I proverbi che riporta nel suo libro appartengono esclusivamente al suo territorio di origine, Licodia Eubea?
Nel libro ci sono riferimenti ai proverbi come espressioni di una cultura nazionale. Ad esempio, “L’abito non fa il monaco” è un detto che trascende non solo la dimensione del mio paese, ma anche quella regionale. Alcuni proverbi hanno una diffusione certamente nazionale. Addirittura, nella post-fazione auspico una ricerca che faccia incontrare il sapere della cultura araba con quella siciliana. Inoltre, nell’introduzione ho cercato di mettere in relazione “Il libro dei proverbi” del Vecchio Testamento con la cultura dei popoli dell’Egitto, mesopotamici ed orientali per indicare come il processo d’integrazione tra le culture antiche può ancora adesso essere motore di una nuova diffusione e integrazione di saperi, al di sopra delle divisioni artefatte che si vogliono diffondere nelle coscienze degli uomini.
Spieghi ai nostri lettori chi è Salvatore Barone?
Domanda veramente difficile, a cui è arduo rispondere. Per farla breve, dirò che Salvatore Barone è un mistificatore. E nemmeno m’interessa spiegare il significato di questa aggettivazione che mi sono data.
Prima di “Càliti juncu” ha scritto racconti e poesie. Qual è il genere letterario che sente più suo?
Ho scritto poesie fin dall’adolescenza e alcune di queste sono presenti nella raccolta “Movimenti liberi”. Continuo a scriverne quando l’ispirazione mi prende, ma purtroppo adesso più raramente. Me ne rammarico. Forse la mia vita ha perso l’afflato che bisognerebbe avere verso ogni evento che può emozionarci. Ma non dispero. Ogni tanto qualcosa mi appassiona, o mi fa soffrire o mi sorprende per la sua bellezza, e allora scrivo di getto versi che, o sono più che altro considerazioni sociali oppure sentimenti personali verso persone che mi sono care. Queste, che non so se definire poesie, sono raccolte in “Movimenti liberi 2”. Ma negli ultimi tempi mi sono dedicato di più alla prosa. Il racconto breve è un genere che mi ha da sempre interessato. Per diletto ne ho scritti diversi a cui ho dato il titolo di “Racconti inattuali”. Questi sono solo il substrato dei romanzi brevi che ho composto contemporaneamente ai racconti. “Pierrot sogna la luna”, “Fraulein Folghereiten” e “In una conca di luce pienamente solare” sono romanzi visionari che non hanno alcun rapporto con la realtà. Appartengono solamente alla mia vita, quando ero giovane, e mi facevo prendere dall’immaginazione e dalla fantasticheria. Ho provato un gran diletto a scriverli. Ultimamente mi sono rivolto alla biografia e all’autobiografia. Ho scritto di mio padre in un romanzo che ho intitolato “Vita di Giovanni Meleagro” e adesso sto cercando di completare una trilogia sulla mia vita che ancora non s’è conclusa. Mi resta la parte più difficile: ripensare alla mia infanzia e adolescenza. Invece è concluso il romanzo “Intermezzo parigino”. Da quanto ho detto, forse in modo prolisso, credo di aver dato una risposta alla domanda: il racconto e il romanzo sono i generi letterari a cui mi sono dedicato di più.
Sta già lavorando a un nuovo progetto?
Nel mio passatempo di scribacchino non ci sono “progetti”, ma solo il piacere di scrivere storie e di descrivere visioni di realtà possibili. Quando queste vengono pubblicate spero solo che possano essere gradite ai miei familiari, amici e lettori ideali.
Caliti juncu sarà presentato sabato 9 marzo, alle ore 17:00 presso la sede di Uni3 a Santa Croce Camerina e venerdì 15 marzo, alle ore 18:30, presso l’auditorium Santa Teresa a Ragusa Ibla