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Il rugby in bianco e nero

Operaincerta, 14 dicembre 2017

 
Il vintage nello sport con la palla ovale

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Il rugby non è sempre stato quello che conosciamo oggi: dirette televisive in alta definizione, giocatori “statue greche”, abbigliamento e materiale tecnico ipertecnologico.

Anche nel rugby c’è stato un tempo in cui si giocava in bianco e nero. Erano i “gloriosi (?)” anni settanta, quelli del Cinque Nazioni commentato in Tv da Paolo Rosi, dell’Italrugby che giocava ancora la coppa Fira, con la seconda squadra della Francia, la cosiddetta “Nazionale B”, che la faceva da padrona, dei giocatori con la pancetta (quando non panciona), del campionato di serie A che non era ancora diventato “Top Ten” o “Eccellenza”.

E anche il modo di giocare a rugby era molto diverso da come si gioca oggi, nonostante anche allora si giocasse in 15, ci fossero le mischie e le touches e il pallone fosse sempre ovale.

Ma ciò che sembra simile non è necessariamente uguale.

Negli anni settanta il pallone era di cuoio, il “mitico” Wallaby della Adidas, quello color beige con le punte nere. Pesante e con pochissimo grip (il grado di aderenza del pallone alle mani, ndr), quando il Wallaby si bagnava diventava una saponetta ingovernabile, ancora più pesante di quanto non lo fosse naturalmente perché, man mano che toccava terra, questo accadeva evidentemente nei campetti spelacchiati di periferia o in quelli senza un filo d’erba del Sud, vi si appiccicava tanto di quel fango che, per far ritornarlo al colore originale, bisognava raschiarlo o metterlo sotto un getto d’acqua.

Mischie e touches, come detto, ci sono sempre state, d’altronde sono l’essenza di questo sport, ma a vedere oggi le vecchie immagini in bianco e nero, si stenta a credere che anche quello fosse rugby. Oggi in mischia siamo abituati ai tre tempi, “bassi”, “lega”, “via”, e solo a questo punto, quando l’arbitro dà una pacca al mediano di mischia o gli fa un cenno, il pallone può essere introdotto nella mischia e i 16 uomini possono iniziare a spingere. Prima, invece, non appena l’arbitro assegnava la mischia, le prime linee entravano subito in contatto e le due mischie potevano già spengere, ancora prima che l’ovale fosse introdotto.

Ancora più irriconoscibile è la touche. Si lanciava con molto meno tecnica di oggi, i cambi di posizione (l’uomo designato a fare proprio l’ovale che si sposta in avanti o indietro per ingannare l’avversario, ndr) non esistevano e non era permesso “l’ascensore” (due giocatori che sollevano un terzo compagno per aiutarlo ad agguantare l’ovale, ndr). Si saltava, tutti allo stesso momento, il più bravo, o chi aveva più coordinazione, conquistava il pallone.

E poi si giocava a ritmi più blandi, i giocatori erano meno “atleti” e più “uomini”. Non c’era il professionismo, durante di giorno si lavorava e la sera ci si allenava.

Era un rugby più a misura d’uomo. Lo si poteva giocare a livelli medio-alti anche se non si era un colosso tutto muscoli e velocità. I giocatori di mischia avevano la pancia e i trequarti un fisico “normale”, non c’erano quei semidei che siamo abituati a vedere oggi. Era normale vedere gli uomini di mischia ancora a terra, mentre il pallone era già dall’altra parte del campo. Oggi invece non è raro vedere le seconde e le terze linee, se non anche i piloni, partecipare al gioco aperto.

Il rugby di oggi è certamente più spettacolare, non è un caso che, a differenza di quello in bianco e nero, lo si vede più spesso in televisione (anche se, a dire il vero, in questi ultimi anni l’offerta, almeno in Italia, è leggermente diminuita, forse perché la Nazionale non vince più come un tempo, ndr) ma noi, sarà colpa dell’età, quando ripensiamo a quel rugby, lo facciamo con una certa nostalgia. E, lo ammetto, non è una cosa molto bella… Che avessero ragione Al Bano e Romina (ancora due dell’epoca del bianco e nero, la cosa diventa preoccupante) a dire che la “nostalgia è canaglia” perché “ti prende proprio quando non vuoi e ti ritrovi con un cuore di paglia e un incendio che non spegni mai”?