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Rugby Vs Rugby
Operaincerta, 14 febbraio 2017
Il rugby australe e quello boreale: due modi di intendere e vivere lo sport della palla ovale che stanno agli antipodi
Se Giuseppe Garibaldi è anche noto con l'appellativo di “eroe dei due mondi” per le sue imprese sia in Europa che in Sudamerica, l’argentino German Pope Greco può benissimo essere definito “il coach dei due mondi” perché l’attuale allenatore del Padua Rugby Ragusa ha allenato con successo sia in Argentina che in Italia, confrontandosi con due modi di intendere e vivere il rugby molto differenti, quello dell’emisfero nord e quello dell’emisfero sud, due rugby che sono letteralmente agli antipodi.
«È così! La differenza sostanziale sta nel fatto che qui, a promuovere lo sport, sono le società e si vive questo sport soltanto in campo, tra allenamenti e partite non più di quattro volte a settimana, mentre nell’altro emisfero ci si è organizzati in club, e al loro interno i ragazzi vi passano tutto il loro tempo libero».
Quindi la prima differenza, la differenza che fa la differenza, è il modo di intendere l’attività fisica, tutta e non solo quella della palla ovale. In Europa ci sono le società sportive che, per quanto in maggior parte dilettantistiche, sono strutturate in maniera piramidale, con presidente, consiglio direttivo, e via dicendo, e poi ci sono i giocatori, che non intervengono nella gestione della società. Dall’altra parte del mondo, invece, esistono i club, di cui i proprietari sono tutti, dirigenti, atleti, genitori, tutti hanno voce in capitolo sulle scelte che si prendono. «E tutti paghiamo mensilmente la quota associativa. Io stesso, pur vivendo in Italia, continuo a versarla al mio club in Argentina. Questa è la base del rugby amatoriale in tutto l’emisfero sud. Poi ci sono i professionisti, le società vere e proprie, ma la base del rugby è amatoriale e organizzata in club, dove si fa anche vita sociale oltre che sport».
E poi c’è il fattore “S”, la scuola. Nell’emisfero australe, con esclusione dell’Argentina, si inizia a giocare a rugby a scuola. I bambini a 5 / 6 anni li vedi già con il pallone ovale in mano. Giocano a scuola, poi vanno a casa e giocano con i genitori in giardino, e quando arrivano a 14 anni, l’età più o meno in cui si avvicina al rugby, soprattutto in Italia, il gap con i nostri ragazzi è così grande che non si riesce più a recuperare.
«Laggiù, a quell’età, sono tutti tecnicamente formati e gli allenatori possono lavorare con più calma sul resto. Qui da noi invece si è appena all’inizio. Purtroppo la scuola, soprattutto quella italiana, privilegia altro piuttosto che lo sport. In Argentina è un po’ come in Italia ma noi riusciamo a recuperare il tempo perso quando si è piccoli grazie alla vita nel club, che è come fare una full immersion nel rugby».
Le differenze ci sono, e si vedono, anche in campo. Qui al nord si gioca un rugby più lento rispetto a quello australe. Noi puntiamo molto sulla strategia e la tattica, e in questo un ruolo molto importante lo svolge l’allenatore, sia durante la settimana che la domenica in partita. Al sud invece si lavora più sul singolo, sulle abilità individuali (i cosiddetti “skills”), per far sì che ogni singolo giocatore sia in grado di risolvere da solo le diverse situazioni di gioco.
«Il rugby del sud probabilmente è più spettacolare, sembra fatto apposta per la televisione. Personalmente preferisco quello europeo perché si gioca di più per la conquista del pallone e mischia e touche hanno ancora una grande importanza nell’economia del gioco. È un rugby più tradizionale, mentre quell’altro somiglia sempre di più al rugby a 13».
Sarà noioso (ma per fortuna non è sempre così), sempre più simile al Rugby League, ma le squadre nazionali dell’emisfero australe dominano in campo internazionale. Gli All Blacks sono in testa al ranking mondiale da tempo immemore, l’unica squadra del nord del mondo a vincere un campionato mondiale è stata l’Inghilterra, una sola vittoria contro le 7 delle squadre australi, gran parte dei giocatori più forti sono “meridionali”. Ci sarà una ragione?
Ce la spiega coach Greco. «È una questione di organizzazione e mentalità. In Nuova Zelanda, ad esempio, dopo la sconfitta ai quarti nel mondiale del 2007 si sono riorganizzati in modo più professionale e il buon lavoro fatto si è visto con le due vittorie consecutive ai mondiali». Di là c’è meno tensione, tutto si prende più in allegria, ma ciò non vuol dire che non si faccia sul serio: la professionalità è al top. Basta andare a visitare una delle loro accademie del rugby per rendersi conto che si è in un altro mondo.
Poi c’è anche il numero di praticanti a fare la differenza. L’Inghilterra ha il maggior numero di tesserati al mondo, ma nell’emisfero sud giocano tutti. Soprattutto i più giovani, ma non solo. In Nuova Zelanda, ad esempio, si organizzano campionati per i genitori, per giocatori che non superino gli 80 chilogrammi (un modo per evitare che nello scontro tra panzer e smilzi quest’ultimi si facciano male), e si gioca sempre, tutte le domeniche. L’idea è quella di coinvolgere, aggregare. L’obiettivo delle federazioni del sud del mondo è riuscire ad avere quanti più giocatori possibile. Se volessimo sintetizzare con una frase la differenza tra l’Italia e la Nuova Zelanda, potremmo dire che qui si guarda (e nemmeno tanto, considerando il poco pubblico che frequenta gli stadi), lì si gioca.
Solo per un aspetto il rugby dell’emisfero boreale vince su quello australe: i soldi. Non è un caso infatti che i più forti giocatori militano ormai quasi esclusivamente nei maggiori campionati europei alla ricerca di ricchi contratti. Non tutti, è vero (la federazione neozelandese, eccezion fatta per alcuni, riesce ancora a trattenere i propri campioni), ma la strada è tracciata.
Parafrasando una celebre pubblicità, potremmo dire per che ogni giocatore c’è un prezzo, per certi piaceri invece c’è solo il lavoro e la programmazione. E dovremmo essere soprattutto noi italiani a comprenderlo e metterlo in pratica.
E se per noi europei riuscire ad ammirare dal vivo i vari Carter, Genia, Giteau, Steyn, Burger, Bosch, Habana, solo per fare alcuni nomi, è certamente un privilegio, per quello che dovrebbe rappresentare l’ideale rugbystico non sarebbe più bello vedere su un campo verde un ragazzino che placca o che passa l’ovale?