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Un uomo in crisi
Operaincerta, 14 maggio 2014
Il secondo album del cantautore bolognese claudio lolli
Di Claudio Lolli su questo giornale se n’è già parlato in passato, in occasione del concerto tenuto dal cantautore bolognese sul Ponte Vecchio a Ragusa (Il vento non l’ha portato via e Vivere con verità, Operaincerta n.2 – Settembre 2005), quindi non staremo qui a dilungarci sulla persona e sull’artista.
Parleremo invece, visto il tema di questo mese, del suo secondo disco, pubblicato nel 1973, Un uomo in crisi.
Registrato a Roma, e uscito per la Emi, la stessa casa discografica per la quale aveva già pubblicato l’anno precedente il disco d’esordio, Aspettando Godot, e per la quale usciranno i successivi due, Canzoni di rabbia e Ho visto anche degli zingari felici, e della quale dirà peste e corna in una canzone, Autobiografia industriale, inserita nel quinto suo lavoro, Disoccupate le strade dai sogni, Un uomo in crisi in realtà è “due mezzi dischi”, visto che ha come sottotitolo Canzoni di morte, canzoni di vita e contiene 9 brani, tra cui 3 di morte e 3 di vita, equamente distribuiti sulle due facciate dell’Lp. All’epoca, e non poteva essere diversamente, il disco uscì in vinile e dunque la divisione tra le due componenti era netta. Oggi, per ovvi motivi, Cd o Mp3, non sarebbe lo stesso.
Un uomo in crisi, uno dei vinili più lunghi usciti in Italia, oltre 50 minuti di durata, si apre con una delle più belle canzoni del cantautore bolognese, quella Io ti racconto che, pur non appartenendo ai “due mezzi dischi”, se ne può considerare un preludio, un avvicinarsi alle canzoni di morte («Io ti racconto lo squallore di una vita vissuta a ore, di gente che non sa più far l'amore. Ti dico la malinconia di vivere in periferia, del tempo grigio che ci porta via. […] Ma tu che ascolti una canzone, lo sai che cos'e' una prigione? Lo sai a che cosa serve una stazione? Lo sai che cosa è una guerra? E quante ce ne sono in terra? A cosa può servire una chitarra? Lo sai che siamo tutti morti e non ce ne siamo neanche accorti, e continuiamo a dire e così sia»).
Ci sono poi le tre canzoni di morte, quelle in cui traspare una visione pessimistica del vivere, sia dal punto di vista sociale che personale.
La prima, La guerra è finita, per certi versi, ricorda nell’ambientazione la quasi coeva (era uscita nel 1970) Il compleanno di Francesco Guccini. Anche qui c’è il racconto di una festa di compleanno, anche qui c’è la tristezza di una vita vissuta non come si sarebbe voluto («Si porta in tavola una torta di mele, con su piantate venti candele e lo spumante dell'anno scorso, tenuto in frigo, rimasto lì. Si porta in tavola la commozione, tutti i ricordi di giovinezza, la ruota gira, gira il timone, fa capolino un po' di tristezza»).
Morire di leva (ad un amico siciliano) è una lunga ballata dylaniana/gucciniana nella quale si narra di un giovane che si toglie la vita mentre sta prestando il servizio di leva. Vi si legge, neanche troppo velatamente, una critica nei confronti di quello che era il “partire militare” e l’ipocrisia delle gerarchie («Questa è la storia, di un povero soldato, che in una notte d'estate s'è ammazzato. Stringersi al collo una cinghia di cuoio, non si fa in tempo neanche a pensare muoio, non si fa in tempo neanche a pensare muoio. […] Il colonnello, col fumo nella testa, va fino in fondo lui alla sua inchiesta. Non ci fu colpa, nessuno ebbe colpa alcuna, il suo cervello cercatelo sulla luna, il suo cervello cercatelo sulla luna. Perché non può, altro che dirsi matto, colui che compie un così insano atto. Il cappellano si associa al risultato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato»).
Chiudeva la facciata, e la trilogia della morte, Hai mai visto una città, una canzone che sembra anche chiudere il cerchio aperto venti minuti prima con Io ti racconto («Hai mai visto una città, dove i sogni rimbalzano sulle finestre ed i vetri riflettono vetri in estate e in inverno, e spalancano gli occhi a cortili quadrati e deserti. Hai mai visto una città, dove si nasce e si muore in un grande ospedale, grattacielo moderno struttura di tipo aziendale, dove la morte è un fatto statistico del tutto normale. […] Hai mai visto una città, con il freddo stampato in faccia alla gente, che cammina qua e là con le mani ficcate in tasca, e negli occhi l'attesa di un sole che porti la festa. Hai, mai visto una città, dove tutte le strade vanno in collina, ma alla fine nessuna è una strada felice e sicura ed ognuno rimane da solo con la sua paura»). Un brano che il violino di Talia Toni Marcus, una musicista che in seguito suonerà con Guccini e Van Morrison, rende ancora più angosciate di quanto non sia.
A questo punto, ai tempi del vinile, ci si doveva alzare e girare il disco, adesso invece si va dritti al quinto brano, quello che dà il titolo all’intero album, quello che ci prepara alle canzoni di vita.
Un uomo in crisi, musicalmente, è una canzone diversa dagli standard dell’album perché, oltre ad essere breve, due minuti appena, è anche “moderatamente” allegra, anche se viene difficile definire allegre le canzoni di Lolli.
Archiviata la title track, si arriva alle tre canzoni di vita, canzoni che hanno l’uomo come tema principale. C’è la convinzione che bisogna guardare dentro se stessi per capire chi si è veramente (Un uomo nascosto), ci sono le vicende di Antonio Gramsci (Quello lì), raccontate attraverso il racconto di un suo vicino di casa, c’è infine l’invito a prendere in mano la propria vita se si vuole cambiarla (La giacca).
Il disco si chiude con Un bel mattino, uno sguardo nichilista nei confronti della vita che sembra essere messa lì quasi ad invitare l’ascoltatore a ricominciare l’ascolto del disco. L’anello che lega la fine del lato B all’inizio del lato A.
Tutto l’album è musicalmente scarno, ripetendo pari pari le atmosfere cupe del primo album, nonostante i musicisti che vi hanno suonato non siano certo di second’ordine. La voce di Lolli, poi, una voce «così piena di ragni di granchi di rane, e altre cose un po' strane, una voce da regno dei più, o da festival del sottosuolo, una voce oltretutto che mi accompagnavo da solo» (da Autobiografia industriale), accentua quel clima di desolazione che si respira durante tutto il disco.
A completare il quadro, ci pensa infine la copertina, nella quale il cantautore bolognese viene ritratto in una stanza spoglia, una specie di stalla, seduto su una sedia di velluto rosso, unica macchia di colore di una foto in bianco e nero virato seppia.
Per molti tra quelli che hanno superato i cinquanta, Claudio Lolli era uno dei cantautori inascoltabili, troppo monotono e triste, roba da mandarti, appunto, in crisi. Stranamente, per me, invece, Lolli ha rappresentato tutt’altro: ogni qualvolta mi sentivo giù, ero triste, mi bastava ascoltare una o due volte un suo disco perché il malumore mi passasse. Per dirla in altro modo, Claudio Lolli era la mia medicina omeopatica contro la crisi.