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Visitatore di porte

Operaincerta, 14 settembre 2005

 
Intervista a Nabil Salameh, cantante dei Radiodervish
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Dopo una serie di email tra l’ufficio stampa di “Note di notte”, la casa discografica dei Radiodervish e il loro manager, la sera del concerto al castello di Donnafugata, alla fine delle prove, possiamo intervistare Nabil Salameh e/o Michele Lobaccaro. Il tempo non è tantissimo e, visto che siamo due testate ad aver chiesto un’intervista, il manager del gruppo ci invita a dividerci e scegliere uno dei due Radiodervish per l’intervista. Un po’ come chiedere ad un bambino se vuole più bene a mamma o a papà!
Così, per la nostra chiacchierata sciegliamo Nabil e, all’interno del cortile del castello, sedendoci su delle sedie apparentemente “abbandonate”, forse lasciate lì apposta per permettere di intervistare gli artisti, cominciamo la nostra discussione

Nabil, tutte le volte che diciamo Radiodervish, ci viene da pensare agli Al Darawish. Ma prima ancora, che cosa c’era?
Prima c’era tanta curiosità, tanta passione per la musica e ci proveniva dalla passione, una cosa che ha poco a che fare con la professione musicale. Michele (Lobaccaro) ed io eravamo due studenti universitari, lui faceva filosofia ed io ingegneria elettronica. La nostra attività era dilettantesca, era un interscambio umano. Tra le prime persone che avevo incontrato quando sono sbarcato da questo lato del Mediterraneo c’era Michele, e così io gli facevo conoscere le nostre canzoni e lui faceva altrettanto con me.
Io sono arrivato qui all’inizio dell’intifada con l’impegno di fare conoscere la causa palestinese e, insieme ad altri studenti palestinesi, facevamo un giro di conferenze per fare controinformazione, dato che l’informazione era alquanto imprecisa sulla questione palestinese.
Qualcuno conosceva la mia passione per la musica, strimpellavo la chitarra, e ogni tanto mi si invitava a cantare le nostre canzoni popolari. Fino a quando non mi è stato proposto di farlo da un palco. Michele è stata la prima persona che ho interpellato per questo progetto, ma si pensava che tutto sarebbe finito lì ed invece da lì è partito tutto.
Non abbiamo fatto altro che rileggere in chiave mista alcuni brani tradizionali nostri e alcuni brani dei Dissidenten, un gruppo formato da tre tedeschi, un russo e due marocchini, un gruppo che è stato tra i primi a muoversi nel campo della world music.
Insomma, siamo partiti in questo modo dilettantistico, ma sempre con la formula di rileggere i brani in modo non parziale, evitando la visione da una parte sola. Vogliamo immaginare un nuovo orizzonte, fantasticare una nuova opportunità. Sarebbe pretenzioso dirlo ma è proprio così. Quando ci chiedono “che musica fate?”, è la domanda più difficile che possano farci. Noi non facciamo musica araba, non facciamo nemmeno una musica di matrice occidentale. Facciamo una cosa meticcia, bastarda, usando il lato buono di questa parola.
Tutto questo è diventato una cosa strutturata nel 1993 quando è uscito il primo disco degli Al Darawish. Poi nel 1996 è uscito il secondo disco, con cui si è conclusa questa prima esperienza.
Nel 1997 sono nati i Radiodervish, prendendo il nome dell’ultimo album del gruppo precedente e adesso siamo al 2005 e abbiamo un percorso musicale che ci ha dato tantissime soddisfazioni. Non siamo entrati nello star system perché è una cosa che non ci interessa, non ci piace, ma abbiamo avuto tantissime soddisfazione, abbiamo potuto viaggiare, conoscere tantissime persone interessanti, abbiamo potuto fare delle esperienze bellissime, incontrare personaggi davvero in gamba e che spesso hanno lasciato un segno sia sulle nostre persone che sulla nostra musica.
Il nostro è stato un percorso molto interessante ed entusiasmante. È un’avventura molto disegnata e molto voluta.

I due nomi, Al Darawish e Radiodervish, che significato hanno?
I due nomi hanno una continuità, almeno a livello di persone, visto che gli autori della vecchia esperienza sono gli stessi della nuova. Diciamo che il filo conduttore nel modo di porsi e di elaborare la musica è più o meno lo stesso, anche se c’è una maturità maggiore e un organico diverso.
Il nome, Al darawish, viene dalla translitterizzazione araba del concetto. Da lì siamo passati alla radice persiana del nome che è composta da due parole, dar, porta e wish, visitatore, e quindi il visitatore delle porte, un po’ come i francescani che abbandonavano la vita materiale e si dedicavano del tutto alla vita spirituale e che, non avendo il tempo per sbarcare il lunario, andavano a chiedere l’elemosina.
Questo è il senso più popolare di questo tipo di clausura, di ascetismo, di misticismo, che caratterizzava queste persone che sono sparse un po’ per tutto il Medioriente. Ma il senso che ci piace di più è quello degli apritori di porte. Aprire le porte: le porte della percezione, le porte della mente, le porte della conoscenza, le porte del cuore, la curiosità di aprire una porta per vedere cosa ci sta dietro. Questo concetto è anche legato a quello dei Dervisches danzanti che utilizzano la musica per avvicinarsi al celeste.
La radio, invece, è un qualcosa che abbiamo riscoperto a distanza di tempo. La nostra infanzia è stata segnata da questo “aggeggio” tecnologico, che permetteva di viaggiare con la fantasia, senza aver bisogno di un passaporto. E chi, come me, ha vissuto la vita da profugo, apprezza tantissimo questo mezzo di viaggio. Quando io, dall’altra sponda del Mediterraneo, cercavo di sintonizzarmi su Radio Montecarlo, su Radio Parigi, su Radio Mosca, curiosamente, Michele cercava di sentire Radio Cairo, Beirut o Tripoli.
Insomma, questi due sostantivi, Radio e Dervish, sono quello che noi siamo e che ci affascina.

Quanto pensi abbia influito il fatto che vi siate incontrati in Puglia, al centro del Mediterraneo?
Tantissimo! Il luogo è importante. Ogni volta che vengo qui in Sicilia, ad esempio, ho sempre lo stesso stupore, forse è fanciullesco ma bello, per la convivialità, per le vite incrociate, per il passaggio che si sente. Qui c’è un incrocio così forte che si avverte nell’aria, nei paesaggi, nei palazzi, nei nomi delle città, in tutto. Lo stesso incrocio lo troviamo e lo viviamo anche in Puglia. L’incrocio è la cifra principale del nostro lavoro. La stessa mia vita è segnata da incroci atipici, e sono quelli che mi hanno fatto capire, sentire, che la diversità è un valore aggiunto. Anche nel suo far male, nello scontro, perché non sempre c’è l’incontro facile. Lo scontro spesso aiuta a capire quale può essere in modo migliore per continuare. Non sempre ciò avviene facilmente, il Mediterraneo ne è testimone in varie epoche. Ma anche quegli scontri hanno fatto la cultura, l’umanità. Il patrimonio umano e culturale del Mediterraneo è fatto, ahimè, anche dalle guerre.
Lo scontro, quando c’è, bisogna cercare di trasformarlo in un valore culturale.

Il nuovo disco nasce da un’opera antica. Ci puoi spiegare?
Erano anni che cercavamo fare un concept-album, non se ne fanno più da un po’ di tempo, dagli anni settanta. Noi cercavamo un soggetto letterario per fare un lavoro musicale. Per coincidenze diverse, “In search of Simurgh” è arrivato alla conoscenza di Michele che me lo ha proposto. È un testo del 1200, scritto da uno dei più importanti mistici di quella scuola nata tra la Persia, la Turchia e l’Iraq, in un’epoca in cui l’occidente di fatto era sull’altra sponda.
Adesso si parla tanto del fatto che l’Europa deve riconoscere le proprie radici cristiane. Lo so, forse questo è un discorso che non c’entra nulla con quello di cui stiamo parlando adesso, ma io penso che se non ci fosse stata quella ricchezza, che poi è passata nel patrimonio culturale della cristianità, non ci sarebbe la cristianità di adesso. Non si può negare che ci sia dell’Islam nella Cristianità, e viceversa.
Tornando alla domanda, ti dico che il libro è bello. Racconta il volo fantastico di uno stormo di uccelli, un volo molto simbolico, che vuole narrare la crescita di ognuno di noi. Partono in trentamila e arrivano in trenta e invece di trovare il tanto cercato re Simurgh, si trovano davanti ad uno specchio. Il messaggio è chiaro: Simurgh significa trenta uccelli, è come se il destino del viaggio fosse stato scritto all’inizio. Il libro è costellato anche da tante narrazioni fantastiche, storie di principesse, di principi, di schiavi. Un po’ stile “mille e una notte”. La ricchezza di questo libro è grande e i capitoli più belli, quelli che ci hanno impressionato di più, sono diventati delle tracce musicali e delle tracce cantate.

Una cosa che si nota immediatamente è la diversità musicale rispetto ai vostri precedenti lavori.
In realtà questo non voleva essere un disco. Questo è un progetto a sé stante. Non voleva essere un altro disco dei Radiodervish, voleva essere un progetto particolare dei Radiodervish. Questo è un progetto che stiamo portando in giro per i teatri perché ha una vita teatrale, anche se alcune tracce di questo progetto vengono comunque proposte in questa tournée estiva.

Per finire, ci puoi dare il tuo parere sulla situazione attuale della Palestina?
Penso che, se si vuole fare qualcosa, bisogna iniziare dalla dignità dell’essere umano, sia palestinese che israeliano. Se un progetto non è chiaro, se non c’è sincerità d’intenti è impossibile stabilire una situazione che possa dare pace e dignità alle persone. Purtroppo, durante cinquntanni, non si sono viste queste situazioni e l’ultima è svanita nel 1995 con l’uccisione di Rabin. Il ritiro da Gaza è sicuramente un importante passo in avanti, ma non è ciò che cercano i palestinesi. La parte debole di questo anello, di questo circolo vizioso, sono i palestinesi e se chi è più forte vuole andare veramente in fondo può guidare il gioco e può arrivare al punto. È inutile nascondersi dietro a delle scuse. Chi è più forte economicamente e militarmente poteva già dare tanti anni fa, sia ai propri cittadini che ai propri vicini, una situazione di convivialità pacifica e fraterna.